Divenire genitore altrove

Per analizzare la nascita, proponiamo di utilizzare un concetto e una parola nuova introdotta da Marie Rose Moro in Maternità e amore. Quello di cui hanno bisogno i bambini per crescere bene qui e altrove: il “ben-trattamento”.

“Ben-trattare” significa per esempio imparare ad accogliere una futura madre e poi imparare a far crescere un bambino.

È un termine molto utile per pensare la prevenzione e la presa in carico precoce e pluridisciplinare di tutto quel che riguarda la nascita, i bambini e i loro genitori, tutti i bambini. Questo “ben‑trattamento” interessa tutti: medici, ostetriche, psicologi e psichiatri, infermieri e tutti i professionisti dell’area materna e infantile. Il “ben-trattamento” presuppone anche una cultura della genitorialità, un ruolo attivo che deve iniziare dai genitori e dalla necessità di sostenerli, quando necessario.

La cultura della genitorialità è la sfida del ventunesimo secolo.

Essere genitori è il mestiere più vecchio del mondo, il più universale, probabilmente il più complicato, forse il più difficile e anche il più articolato. La cosa importante è trovare il proprio modo di essere genitore, di trasmettere il legame, la tenerezza, la cura di sé e degli altri, la vita. Possiamo anche constatare che alcuni genitori, troppo vulnerabili o posti in situazioni difficili e talvolta perfino inumane, sono talmente occupati ad attuare strategie di sopravvivenza in tutti i sensi della parola, sopravvivenza psichica o sopravvivenza materiale – che si trovano nella difficoltà o nell’impossibilità di trasmettere qualcosa che non sia la precarietà del mondo e la sua complessità. Ecco perché è importante conoscere meglio le situazioni di migrazione che generano nei genitori trasformazioni e, a volte, rotture, che rendono più difficile l’instaurarsi di un rapporto genitori-bambini se non si tiene conto della variabile “migrazione”. Al giorno d’oggi, le migrazioni fanno parte di tutte le società moderne e multietniche e devono quindi essere oggetto di ciò che dobbiamo essere in grado di affrontare nella quotidianità in quanto operatori della salute. Non si tratta, infatti, di far fronte ad una “emergenza” (termine spesso abusato dai media), ma di prepararsi ad accogliere e integrare nel proprio sistema di valori, pratiche e quant’altro, un mondo nuovo.

Gli ingredienti della genitorialità

Genitore non si nasce, si diventa…

la genitorialità si costruisce con ingredienti complessi. Alcuni sono collettivi, appartengono all’intera società, cambiano con il tempo: sono quelli storici, giuridici, sociali e culturali. Altri sono più intimi, privati, consapevoli o inconsapevoli, appartengono a ciascuno dei due genitori in quanto persone e in quanto futuri genitori, alla coppia, alla storia familiare del padre e della madre. Qui entra in gioco ciò che viene trasmesso e ciò che viene nascosto, i traumi infantili e il modo in cui ciascuno li ha risolti. E poi, c’è un’altra serie di fattori che appartengono al bambino stesso, il quale trasforma i propri “procreatori” in genitori. Alcuni neonati sono più dotati di altri, alcuni vedono la luce in condizioni che gli rendono questo compito più facile, altri, a causa delle condizioni in cui nascono (parto prematuro, sofferenza neonatale, handicap fisici o psichici…), devono superare innumerevoli ostacoli e sviluppare strategie articolate e spesso faticose per entrare in relazione con l’adulto sorpreso e turbato. Il neonato, come sappiamo grazie ai lavori di BrazeltonStern e di molti altri, è un partner attivo dell’interazione genitori-bambini e, attraverso questa, della costruzione della genitorialità. Contribuisce a far emergere l’istinto materno e quello paterno negli adulti che lo circondano, lo accudiscono, lo nutrono, gli procurano piacere nello scambio di atti e di affetto che caratterizza i primissimi momenti di vita del bambino.

Ci sono mille e uno modi di essere padre e madre, come dimostrano i tanti studi di sociologi e di antropologi.

Il problema sta dunque nel lasciare lo spazio necessario a far emergere tali potenzialità e nell’astenersi da ogni giudizio su “il modo migliore di essere padre o di essere madre”. Ma è un compito arduo, poiché la tendenza naturale di tutti i curanti è di pensare di sapere meglio dei genitori come comportarsi con il bambino, quali sono i suoi bisogni, le sue aspettative… Il nostro è invece non tanto di dire come bisogna essere o come bisogna fare, ma di permettere che nei genitori emergano le loro capacità e di limitarci ad aiutarli in tale processo. Nella costruzione della funzione genitoriale entrano dunque in gioco alcuni fattori sociali e alcuni culturali. I fattori culturali svolgono un ruolo preventivo, permettono di anticipare come si diventa genitore e, se necessario, di dare un senso alle difficoltà quotidiane della relazione genitori-bambino e di prevenire l’instaurarsi di sofferenze.

Gli elementi culturali si mescolano e si intersecano fin da subito e in maniera profonda con gli elementi individuali e familiari.

La gravidanza, in virtù del suo carattere iniziatico, ci fa tornare alla mente le nostre appartenenze mitiche, culturali, fantasmatiche.

Come proteggersi, in esilio? Come avere dei bei figli? Vi sono posti in cui non bisogna annunciare la propria gravidanza, altri in cui bisogna evitare di mangiare certi pesci o tuberi che si ammorbidiscono con la cottura. In altri posti ancora, quando la moglie è incinta, il marito non deve mangiare determinati tipi di carne… In posti più lontani, bisogna ricordare i propri sogni, interpretarli e rispettare le richieste fatte nel sogno perché è il nascituro che parla… Nell’esilio, questi elementi della sfera privata (che non sono condivisi dalla società) si scontrano talvolta con le logiche esterne mediche, psicologiche, sociali e culturali. Arriva poi il momento del parto, momento tecnico e pubblico, in quanto si partorisce all’ospedale senza i propri familiari. Anche in questo caso, ci sono mille e uno modi di partorire, di accogliere il bambino, di presentargli il mondo, poi di pensare la sua alterità e a volte anche la sua sofferenza. Tutte queste “piccole cose da nulla”, riattivate in situazione di crisi, risvegliano rappresentazioni a volte sopite o che si credevano superate.

Al contrario, come dimostrano diverse esperienze cliniche (come ad esempio, come consultazione transculturale in un reparto di maternità, l’esperienza dell’Ospedale di Bondy nella periferia nord di Parigi), la condivisione di queste rappresentazioni è di sicura efficacia. Da un punto di vista teorico, esse rinnovano i nostri modi di pensare, ci obbligano a de-centrarci, a rendere più complessi i nostri modelli e ad abbandonare giudizi affrettati. Tener conto di tale alterità significa permettere alle donne di vivere in maniera non traumatica le varie fasi di tale esperienza, e di familiarizzare con altri modi di pensare, con altre tecniche…

Poiché la migrazione implica essa stessa la necessità di cambiamento.

Ignorare tale alterità significa non solo privarsi dell’aspetto creativo dell’incontro, ma anche correre il rischio che tali donne non si inseriscano nel nostro sistema di prevenzione e di cura, e costringerle alla solitudine. Per pensare, noi abbiamo bisogno di co-costruire insieme, di scambio, di confronto fra le nostre percezioni e quelle degli altri; se tutto ciò non è possibile, il loro pensare non può che appoggiarsi solo su se stesse e i propri disagi. Questo non-confronto può anche portare ad un irrigidimento, ad un ripiegamento psichico e identitario. È lo scambio con l’altro che ci modifica.

Tradizionalmente la gravidanza è un momento in cui sono le donne del gruppo ad “accudire” la futura madre: accompagnamento, preparazione alle diverse fasi della maternità, interpretazione dei sogni (Moro, 1994).

La migrazione provoca diverse fratture in tale processo di iniziazione e di costruzione di significati. Innanzitutto, una perdita dell’accompagnamento da parte del gruppo, del sostegno familiare, sociale e culturale e un’impossibilità di dare un senso culturalmente accettabile a problemi quali la tristezza della madre, il suo sentimento di incapacità, l’interazione difficile tra madre e neonato… Inoltre, le donne si confrontano con modi di fare che non rispettano i mezzi di cura tradizionale. A volte, queste donne vivono le pratiche mediche occidentali come atti violenti, impudichi, traumatici se non addirittura “pornografici”.

Noi operatori della salute ci interroghiamo raramente sulla dimensione culturale della genitorialità e, soprattutto, non consideriamo che tener conto di questi modi di pensare e di fare è utile per stabilire un’alleanza, per capire, prevenire, curare. Siamo certi che la tecnica sia nuda, senza impatti culturali, e che la mera applicazione di un protocollo basti a far sì che la nostra azione sia correttamente eseguita.

La prevenzione, in effetti, comincia dalla gravidanza.

Bisogna aiutare le madri in difficoltà a pensare alla nascita del loro bambino, a dargli la giusta importanza, ad accoglierlo nonostante la solitudine nella quale vivono, solitudine sociale ma più ancora esistenziale. La cultura condivisa consente di anticipare quello che accadrà, di pensarlo, di proteggersi. Serve come supporto per costruire il posto per il nascituro. Il nuovo nato è uno straniero che bisogna imparare a conoscere e riconoscere.

Nel periodo perinatale, sono necessari non solo aggiustamenti tra la madre e il neonato, ma anche tra marito e moglie; possono sorgere difficoltà, talvolta inevitabili, ma spesso solo transitorie, se si interviene per tempo. Bisogna quindi saperli intravedere nelle manifestazioni somatiche o funzionali, in quelle domande spesso difficili da formulare, perché non si sa a chi e come rivolgerle. Bisogna imparare a riconoscere lo smarrimento e i dubbi delle madri migranti attraverso piccole cose (dolori somatici, lamenti nei confronti del bambino, domande d’aiuto sociale…). Bisogna soprattutto far sì che, quando necessario, esse possano esprimersi nella loro lingua, eventualmente attraverso la mediazione di altre donne della loro comunità.

La prevenzione precoce si attiva proprio dall’inizio della vita, nei centri di cura materna e infantile, nei servizi di maternità e pediatria, nei luoghi di accoglienza dei più piccoli, nei consultori di medicina familiare, nei luoghi di neuropsichiatria infantile. La prevenzione nel periodo perinatale è fondamentale, poiché se, com’è noto, si tratta di un periodo cruciale per lo sviluppo neonatale, è altrettanto vero che è in quel periodo che si costruisce il posto del bambino nella famiglia.

Come affermato dalla Moro, è

“la poesia della diversità che ci permette di essere più sensibili all’unicità dell’esperienza umana e alla sua complessità”.

M. Isabella Robbiani

Bibliografia:

Lallemand S, Journet O, Ewombe-Moundo E et al. Grossesse et petiteenfance en Afrique Noire et à Madagascar. L’Harmattan, Paris 1991.

Moro RM et al. Manuale di psichiatria transculturale – dalla clinica alla società. Franco Angeli ed. 2009.

Rabain-Jamin J. Culture and early social interaction. The example of mother-infantobject play in African and native French families. Eur J PsychEduc 1989;4(2):295-305.

Stork HE. EnfancesIndiennes. étude de psychologietransculturelle et comparéedujeune enfant. Paidos/BayardEditions, Paris 1986.